BEETHOVEN IN VERMONT

Storia di un pomeriggio brillantemente rivoluzionario  

Recensione a cura di Rosa Elenia Stravato

Portare in scena un’ipotesi è possibile?

Può essere resa un’idea, una suggestione così tangibile da poter dire: “io c’ero”? È l’avventura che ci invita a vivere  “Beethoven in Vermont”, uno spettacolo teatral- musicale scritto e diretto da Maria Letizia Compatangelo e che vede in scena il Trio Metamorphosi (Mauro Loguercio al violino, Francesco e Angelo Pepicelli rispettivamente al violoncello e pianoforte).

Un’ipotesi, un’immagine di un possibile svolgimento dei fatti.

Un punto di partenza che accomuna , mettendo sul medesimo piano, gli spettatori con i performer. Adotto, non a caso questa parola, giacché i tre musicisti in scena sono altresì attori. 

Una lezione spettacolo? 

Un’accademica interpretazione dei fatti? 

Non direi.

Si tratta, piuttosto, di una passeggiata tra le pagine della storia ma con un punto di vista divergente, non banale: quello di tre brillanti musicisti, figli e interpreti, del loro complesso tempo storico. Un tempo che, immediatamente, scandisce i loro passi. 

Un teatro pieno, illuminato dal sospiro dell’attesa su una scena buia ma aperta, accogliente. Una scena che invita ad abbassare le armature e a mettersi comodi, in ascolto; a sciogliere le catene per donarsi a qualcosa di inatteso ma che promette qualcosa di speciale. Come nelle migliori delle performance siamo scaraventati in medias res nei fatti. Eccoci, siamo in scena! 

Un laboratorio musicale, una tradizionalissima sala prove popolata da spartiti e ferri del mestiere. È la musica che guida la drammaturgia di una performance in cui, ve lo assicuro, anche le ombre hanno la loro funzione narrativa. Non c’è spazio per il caso. 

Quel “qui ed ora” del teatro si palesa dal primo secondo con una naturalezza disarmante.

Siamo nel 1951. Al di là di quella stanza, anche se al suo interno se ne riconoscono gli echi, c’è tutto il frastuono della seconda guerra mondiale: c’è chi ancora non ha potuto fare pace con i propri demoni; ci sono le speranze che si aggrappano alle esigenze, i tormenti che come spettri si aggirano nelle stanze della memoria. C’è l’esigenza di andare oltre leccandosi le ferite, stringendo al petto le mancanze. Redenzione, condanna e frustrazione si specchiano nell’abisso delle incertezze, delle note assordanti che conoscono meglio le anime di chiunque altro. 

Adolf Bush, Hermann Bush e Rudolf Serkin si apprestano a stilare il programma che dovrebbe dar vita al concerto inaugurale del “Marlboro Festival”, un progetto rivoluzionario che mantiene, ad oggi, la sua longeva freschezza. 

L’embrione, dunque, di un festival dedicato alla musica da camera in un momento in cui permangono crepe, frammenti, schegge di parole taciute ma colme di punti interrogativi. Una sorta di crisi che attanaglia i tre musicisti, esuli dalla Germania nazista, che si confrontano in maniera animata tra confidenze, chicche musicali, ricordi e mettono a nudo la loro arte che, in fin dei conti, racconta le loro scelte, le loro poetiche. Si, perché i tre -che coordinano un gruppo di studenti in America- hanno bisogno dapprima di riflettere sul perché sia necessario restituire quel concerto al loro pubblico e per farlo avvertono l’esigenza di ascoltarsi, analizzarsi, aprire i loro vasi di Pandora. I confronti tra i tre musicisti rendono al pubblico un excursus tra vari modelli musicali che spaziano da Händel, Schubert, Schumann o Brahms e che tratteggiano chiaramente la florida musica romantica tedesca. È singolare come, la magia della musica e la giustezza delle parole, riesca a portare lo spettatore in quella stanza: si tocca con mano il rumore del ricordo per il rigetto del regime nazista, si soffre per la paura e ci specchia nella riconoscenza di chi si è visto aprire la porta e trovare la salvezza. C’è spazio, addirittura, per raccontarsi il trionfo dell’amore e il calore dell’appartenenza. 

C’è un fil-rouge che percorre tutta opera ed è la tensione avvertita dai i tre protagonisti: sono, in fondo, sempre tre europei tedeschi dinnanzi a degli americani e la Germania non ha ancora pagato il conto per l’abominio commesso. 

E così che, tra un duello ad archetti incatenati tra  violoncello e violino si spande la soave sonorità del pianoforte. E proprio lì, in quel serrato dibattito altissimo tra i musicisti,  che lo spettatore apprende il fulcro, la genialità che porta a scegliere proprio Beethoven: un genio che ha saputo far tesoro delle proprie macerie interiori, osteggiato dal padre, devastato dalla sordità ma che ha dato vita a una produzione immensamente alta. Perché , citando il testo, “è cercando la bellezza che un’artista combatte”. Ed in quella lotta, in fondo, prende parte anche lo spettatore.

Ma allora che fare? Affidarsi alla genialità, alla magia della condivisione, all’educazione della bellezza. Andare a teatro, quindi, non per avere risposte sul mondo ma per mettersi in discussione e in divenire.

Una performance pulita, ricca di stimoli che spaziano dalle nozioni storiche, all’arte pittorica finanche  alle speculazioni filosofiche, tra cui un’eccezionale riferimento a Immanuel Kant. 

La potenza della musica e la maestria dei musicisti vengono accompagnati dalla potenza selettiva delle parole. È una performance, questa, in cui la parola non perde la sua autorevolezza. Anzi, se vogliamo, è lei l’artefice del destino di quelle melodie che riecheggiano dalla platea alle balconate.

Vi sembrerà di essere sospesi in una coltre di a-temporalità e quella sensazione di melanconia guiderà i passi che vi traghetteranno al domani. Un domani in cui, in fondo, la parola “crisi” vi farà un pò meno paura poiché fioriera di possibili scenari, ipotesi. 

Perciò, concedetevi del tempo per un’ipotesi e gustatevi “Beethoven in Vermont”.

Lascia un commento